XXX domenica del tempo ordinario - 27 ottobre 2019
Dal Vangelo secondo Luca (18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Nella I lettura (Sir 35, 15b-17.20-22a) ritorna il tema di ciò che abbiamo ascoltato nel vangelo di domenica scorsa, cioè di una preghiera a Dio da fare con insistenza: “La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto”.
Una preghiera insistente: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. Prima o poi il Signore interverrà, nel frattempo la mia preghiera può cambiare, impara ad intonarsi con la volontà di Dio.
È comprensibile che S. Paolo alla fine della sua vita dice che per lui è stato importante conservare la fede, cioè continuare a credere che Dio ascolta la nostra preghiera e risponde.
In proposito san Paolo, nella seconda lettura (2Tm 4,6-8.16-18) fa riferimento alla sua vita personale: “In tribunale, tutti mi hanno abbandonato. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza”.
Quindi, la preghiera dev’essere insistente, nella fede di essere ascoltati.
Questo è il pregare come un povero: il povero non possiede e quindi chiede.
Ed è solo così che si può entrare in relazione con Dio.
L’insistenza è di chi ha bisogno. E il bisogno esprime povertà.
La preghiera è dire a Dio: “Io sono povero, ed ho bisogno di te per essere guarito, perdonato, salvato”.
La parabola raccontata da Gesù smaschera la nostra ricorrente e “intima presunzione di essere giusti” e di disprezzare “gli altri”, dimenticando la forza e la dignità di quel mendicante che si nasconde in ciascuno di noi.
Ciò che ci rende capaci di entrare in “confidenza” e in sinergia con la tenerezza del Padre è proprio la nostra povertà.
La riflessione del fariseo indica una vita di fede e preghiera tutta concentrata sui propri meriti piuttosto che sulla gratuità della salvezza: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” (18,11-12).
Diverso è il sentimento di un altro fariseo, Paolo, che confida a Timoteo la sua unica speranza: “Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la manifestazione”.
Al termine della sua vita, Paolo ha imparato a guardare senza disprezzo né giudizio i peccatori, riconoscendosi solidale con la loro esperienza. San Paolo è un fariseo che ha finalmente capito di non essere diverso da un pubblicano, così cosciente della propria povertà che non osa “alzare gli occhi al cielo”, ma così presente a Dio da potergli chiedere con umiltà ogni cosa: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Quest’uomo ha capito ciò che si legge nel libro del Siracide: cioè che il Signore è un “giudice” misericordioso e “per lui non c’è preferenza di persone” (Sir 35,15), ma “ascolta la preghiera dell’oppresso” (35,16), che “si sfoga” e non tiene nascoso il suo “lamento” (35,17).
“Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14).
Il fariseo torna a casa dopo aver tentato, invano, di farsi giusto con le proprie forze. Il pubblicano, invece, torna sollevato dallo sguardo di colui che “non trascura” mai “la supplica” di chi non ha timore di sfogarsi davanti a lui “nel lamento” (Sir 35,17).
Il messaggio evangelico è quello di crescere nella consapevolezza di non essere ancora giusti ma di poter tornare a esserlo sempre e gratuitamente, davanti a un Padre che ci suggerisce il segreto di una preghiera povera e che custodisce la più bella speranza che il nostro cuore possa sperimentare: “Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli” (2Tm 4,18).
don Sebastiano Carlo Vallati