XXVII domenica del tempo ordinario - 6 ottobre 2019
Dal vangelo Luca (17,5-10)
Gli apostoli dissero al Signore: “Aumenta la nostra fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
Uno dei più grandi teologi cattolici del ‘900, Romano Guardini, scriveva che “alla fine della vita, Dio mi farà tante domande sulla mia esistenza. Ma in conclusione anch’io avrò delle domande da fare a Lui: perché il dolore innocente? Perché il male? Gli domanderò tante cose che nella vita non ho capito”.
Perché Dio sembra disinteressarsi delle fatiche dell’uomo, di ciò che accade sulla terra? Perché non soccorre gli oppressi?
Queste sono le domande del profeta Abacuc che leggiamo nella prima lettura.
Il profeta cerca di capire quello che sta accadendo e non teme di aprire un contenzioso con Dio. Anche il popolo vuole una spiegazione, si rivolge ad Abacuc e gli chiede di consultare il Signore. E il profeta, in quella stessa notte si raccoglie in preghiera e dirige a Dio le domande: fino a quando, Signore, continuerai a tacere? Fino a quando tollererai l’ingiustizia? Perché rimani spettatore inerte di fronte alla rapina, alle violenze, alle liti, alle contese? (Ab 1,2-3).
Abacuc ha il coraggio di dire al Signore che non è d’accordo con lui, che non capisce la sua tolleranza nei confronti dei malvagi; gli chiede conto del suo modo di governare il mondo, gli eventi della storia.
Poi, il profeta tace. Ora tocca a Dio rispondere.
Risposta che non si fa attendere. Dio ordina ad Abacuc: prendi nota, scrivi ciò che sto per dire perché voglio che rimanga documentato. Ecco la promessa: a breve termine non accadrà nulla, non ci saranno cambiamenti immediati. Passerà un certo tempo prima che giunga la liberazione. Guai però a scoraggiarsi, diffidare, rassegnarsi all’ingiustizia, adeguarsi al comportamento dei malvagi.
Dio non dà alcuna spiegazione, chiede solo fiducia incondizionata.
Capisce le rimostranze del profeta e del popolo, sa che non sono in grado di comprendere le ragioni della sua tolleranza, tuttavia assicura che un giorno apparirà a tutti ciò che oggi soltanto a lui è dato di vedere: l’empio – che apparentemente prospera – in realtà sta ponendo le basi della sua rovina. Davanti a colui che si fida del Signore, si spalancano invece orizzonti di vita.
È comprensibile la domanda dei discepoli: “Aumenta la nostra fede”.
Se la fede non è un sapere delle cose, un pacchetto di verità, ma la piena e incondizionata fiducia in Cristo, l’adesione alla sua proposta di vita, è facile rendersi conto che la fede può crescere o diminuire. Il cammino al seguito del Maestro a volte è più spedito, a volte meno, a volte ci si stanca, si rallenta e ci si ferma.
L’esperienza di una fede incerta e vacillante viene fatta ogni giorno: crediamo in Gesù, ma non ci fidiamo totalmente di lui.
I discepoli arrivano a capire che il crescere nel discepolato non è frutto del loro sforzo e del loro impegno, ma è un dono di Dio, per questo chiedono a Gesù di renderli più convinti, più generosi nella scelta di seguirlo.
Gesù ha prospettato per loro un cammino difficile: entrare per la porta stretta, essere disposti a “odiare” il padre e la madre, rinunciare a tutti i propri beni, essere capaci di perdonare senza limiti e senza condizioni. Davanti a simili richieste è comprensibile che si sentano mancare le forze. Temono di non farcela. È comprensibile, allora, l’invocazione di aiuto.
E Gesù comincia a descrivere le meraviglie che la fede produce.
Parla di un albero che può essere miracolosamente sradicato e piantato in mare. La fede – dice Gesù – è capace di realizzare anche l’impossibile: sradicare un sicomoro (pianta dalle radici molto forti e profonde, radici che resistono anche per seicento anni e che sono molto difficili da estirpare dalla terra) o far crescere un gelso nel mare.
Per chi crede non esistono situazioni irrecuperabili.
Non tocca a Dio aggiungere, accrescere, aumentare la fede: la fede è la libera risposta dell’uomo.
Gesù cambia la prospettiva da cui guardare la fede, introducendo come unità di misura il granello di senape, il più piccolo di tutti i semi. Fede come granello, come briciola; non quella sicura e spavalda ma quella che, nella sua fragilità, ha ancora più bisogno di Lui, che per la propria piccolezza ha ancora più fiducia nella sua forza.
Allora ne basta un granello, poca, per ottenere risultati impensabili.
La fede è un niente che è tutto.
La fede grande sta nell'accettare che la nostra fede sia piccola, povera e che noi siamo piccoli, poveri che hanno finalmente capito che non possono poggiarsi sulle loro forze, ma che confidano nell'Unico a cui tutto è possibile.
La fede piccola come un granellino è riconoscere che ciò che conta è la fedeltà del Signore.
Credere significa alla fin fine seguire Gesù: e quando lo si segue, si cammina dietro a lui, vacillando sovente, ma accogliendo l’azione con cui egli ci rialza e ci sostiene, affinché possiamo stare sempre là dove lui è.
Segue poi una parabola, con la quale Gesù vuole correggere il modo fuorviante in cui i farisei (di allora e di oggi) intendevano il rapporto con Dio.
Gesù mette in guardia i discepoli dal confidare in se stessi, perché questo è il peccato che si oppone radicalmente alla fede.
Questo potrebbe succedere anche agli inviati che, consapevoli di aver fatto puntualmente la volontà del Signore, vorrebbero essere riconosciuti, premiati.
“Siamo servi non necessari, ciò che dovevamo fare l’abbiamo fatto”.
L'inutilità di cui parla Gesù è la gratuità: è servire contenti di farlo, senza pretese, senza esigenze, senza rivendicazioni, senza bisogno di applausi, di consensi, di successi.
E chi agisce così, ogni sera e alla sera della sua vita può dire con gioia e libertà: sono un semplice servo, la mia vita è stata una risposta all'amore di Dio.
Certamente una risposta povera e inadeguata, mai all'altezza di quell'amore.
Ma so che ciò che mi è stato affidato è un dono: sarà lui a portarlo a pienezza.
don Sebastiano Carlo Vallati