XXVII domenica del tempo ordinario - 7 ottobre
Dal libro della Gènesi (2,18-24)
Il Signore Dio disse: «Non è bene che l'uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l'uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall'uomo è stata tolta». Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un'unica carne.
Dal vangelo secondo Marco (10,2-16)
Avvicinatisi dei farisei, per metterlo alla prova, gli domandarono: “È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?”. Ma egli rispose loro: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Dissero: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla”. Gesù disse loro: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma all’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto”. Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento. Ed egli disse: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio”. Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso”. E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva.
“Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda” (Gen 2,18). Dopo avergli dato la vita, il desiderio di Dio è quello di chiamare l’uomo alla comunione. L’adam può essere veramente a immagine e somiglianza di Colui che lo ha creato e lo custodisce, non nella solitudine, ma nell’incontro e nella relazione.
“Voglio fargli un aiuto”. ‘Aiuto’ in ebraico è detto con il termine ‘ezer’ che nel Primo Testamento ha per soggetto Dio. Infatti, Dio è ‘aiuto’ per l’uomo. Ma il suo sostegno e la sua prossimità si rendono presenti anche con le relazioni che gli uomini vivono tra di loro. Soprattutto in quella relazione singolare che si stabilisce tra l’uomo e la donna, dove l’alterità diventa il luogo della comunione.
Il desiderio di Dio è che l’uomo abbia qualcuno che stia davanti a lui, ad altezza del suo volto.
Adamo non può trovarlo nelle altre creature, nei riguardi delle quali deve esercitare il compito, affidatogli da Dio stesso, di imporre il nome, immagine che nel linguaggio biblico indica l’idea di un dominio, di una superiorità.
L’aiuto lo potrà incontrare solo nella rinuncia a ogni pretesa di dominio, come simboleggia il sonno al quale Adamo si lascia andare.
Non sarà lui ad imporre il nome a questa creatura: lo riceverà da altrove: “La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta” (2,23).
Abbandonando le logiche del potere e del dominio, e abbracciando quelle del dono, per Adamo avviene il vero incontro.
Dio dona Eva ad Adamo, ma attraverso la ferita che apre il suo costato, simbolo che la vita stessa di Adamo deve aprirsi alla logica del dono.
Adamo riceve Eva nel momento in cui diventa lui stesso un donatore, reso tale dall’agire di Dio.
Come scriveva il biblista P. Beauchamp: “così l’uomo nasce facendo nascere”. La benedizione di Dio la si coglie sempre così: nello spazio di una ferita, di un’esistenza che si lascia trasformare e aprire dall’azione di Dio, non dal possesso ma dal dono.
E nel racconto Eva non è solo colei che sta davanti ad Adamo; diviene colei con la quale Adamo può diventare “un’unica carne” (2,24). Dalla promessa di un aiuto che sta davanti ad Adamo, alla possibilità di una radicale comunione con lui.
Si può vivere una comunione vera – fino a diventare una sola carne -, solo là dove ci si sa riconoscere l’uno davanti all’altra, con pari dignità, vincendo tentazioni di reciproco dominio o sottomissione.
Nella seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, si legge che “colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli” (Eb 2,11).
Nell’incarnazione, il Figlio di Dio scende nella nostra umanità e prende la nostra carne. È lui ora a divenire una sola carne con noi. L’alleanza si compie in modo definitivo: Dio sposa fedelmente la nostra umanità. Egli diviene il nostro Dio e noi siamo il suo popolo.
È nell’amore fecondo e fedele con cui Dio, nel Figlio, diviene una sola carne con noi che un uomo e una donna possono divenire, in modo altrettanto fecondo e fedele, una sola carne. E il legame dell’uomo con la donna diviene segno credibile dell’amore di Dio per il suo popolo, per l’umanità.
“Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto” (Mc 10.9): Gesù ricorda che è l’amore di Dio, manifestatosi nel Figlio, a rendere possibile la fedeltà e la perseveranza della loro unione.
È un dono da accogliere. Possiamo riceverlo con l’atteggiamento di Adamo, che dorme e riposa nella fiducia di Dio; o con l’atteggiamento dei bambini, che accolgono il Regno confidando nell’azione di Dio.
D. Sebastiano Carlo Vallati